Intervista con Enrico Ianniello

ianiello01Se gli dici che il suo è il «libro del momento» sorride. Se gli spieghi che ti sembra di avere letto una  «Macondo irpina» ci pensa, ancora ride e poi, va bene, acconsente.

Ma chissà se  Enrico Ianniello – traduttore, autore, regista -di intelligenza affilatissima, già vincitore del Campiello opera prima, immaginava un successo così travolgente quando scriveva il suo esordio: La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin (Feltrinelli, 266 pp., 16 euro). A occhio no, non ci pare una sua urgenza. «Ho bisogno di guardare a lungo fuori dalla finestra e immaginare e starmene lì imbambolato» è la risposta per chi chiede di entrare nella sua officina creativa.  E, del resto, l’irriverenza intelligente è un suo tratto: «Chi non ha sofferto, canticchia. Chi ha sofferto, canta! », leggi nella quarta del suo romanzo, caso editoriale, successo di pubblico e di critica. Tutto costruito, appunto, intorno alla figura di Isidoro. Guaglioncello di paese, figlio di Stella, pastaia, e Quirino. Che vive, non ci pensa, insieme al suo gruppo di amici meravigliosi, fantastici, ironici. E, poi, ormai quasi tutti i lettori lo sanno, Isidoro fischia, fischia in modo prodigioso. La vita la affronta così e più che stile è filosofia, allegria con cui abbracciare l’esistenza. E’ anche una storia d’amore questo libro: Isidoro sarà capace di farsi mettere sottosopra l’esistenza da un incontro folgorante. E poi è anche un protagonista amabile:  conosce il valore dell’amicizia e della bellezza. Ha molto da insegnare, diciamo così, alla coscienza contemporanea.

 «L’arte si nutre della diversità» – ha detto in una recente intervista ad Annarita Briganti. C’è un collegamento con la ossessiva attenzione alla lingua che nel libro si ritrova?

Certo. Io vengo dal teatro. Quello che ho imparato è che il mestiere artistico si nutre dell’originalità. Declinazione della diversità. Si insegna la tecnica. Ma poi ognuno deve fare il suo. Nel romanzo ho cercato di portare tutto questo alla  massima espressione. Con i miei personaggi, chiaramente, che hanno la loro forza nella loro stramberia che passa dalla lingua usata.

Leggiamo peraltro che questo è un libro che punta forte sull’intelligenza del cuore. Che significa?

Non posso fare altro che citare Molière: «la forza dell’amore è il non avere cervello». Basterebbe questo. Di mio provo ad aggiungere solo un piccolo  condimento: volevo , lo ammetto, che i miei personaggi fossero simpatici. La simpatia in un certo senso può essere un prodromo della pace, del buon vivere.  E in questo senso io volevo andare.

E’ un libro in cui c’è tantissimo sud. Diverso, però, da quello che vediamo negli ultimi anni, segnato dall’imprenditoria criminale, dalla bruttezza, tanto in teatro quanto  nei libri. E’ così?

Sì. E’ così. E naturalmente la mia non è una scelta polemica nei confronti di tutti coloro che hanno realizzato quella produzione.

Ma devo prenderla da lontano. Vivo a Barcellona,  da qualche anno, e parto da una piccola poesia catalana che qui puoi leggere  sulle panchine. “Quando un paese non cammina unito, il primo a risentirne è il teatro – dice tra l’altro”. Ed è vero. Mi sono chiesto il perché. In fondo è semplice: quando il mostro si guarda allo specchio si fa schifo e lo rompe. I romanzi cui tu ti riferisci, come Gomorra, sono importantissimi perché ci hanno fatto vedere quello che siamo. Ma ora in mezzo  a quello possiamo vedere ciò che schifo non fa. E da lì tessere anche  un filo diverso. L’arte, la cultura, sono qualcosa di inutile e che ci salverà. L’imprenditoria criminale ha l’utile come obiettivo. E quello ci condannerà.

Riuscirebbe ad essere uno scrittore senza essere un regista o viceversa?

Non credo, tutto per me viene da un unico nucleo. Gioco e parola. Tutto torna a questi due termini. Non a caso, in molte lingue, recitare e giocare sono sinonimi. Noi, pure, siamo dominati dallo scherzo e non dal gioco e questo è qualcosa che dobbiamo recuperare.  Il gioco è un’espressione altissima. Nel gioco di parole si trova la sfumatura tra due colori diversi che all’inizio non vedi mai. Qualcosa prima non c’era e poi, invece c’è. E’ vera creazione.

Fiero di essere in finale a un premio attribuito da librai indipendenti?

Moltissimo. Perché il libraio è quello che fa la relazione tra te e il lettore. Io ho tradotto e mi sento di dire che il libraio e il traduttore sono simili. Possono fare la fortuna di un libro a seconda della parola che utilizzano per dargli forma o anche per promuoverlo. La dice lunga, questo, sull’importanza che attribuisco loro!