Su Solo il tempo di morire: intervista a Paolo Roversi
Il titolo sembra una frase violenta di Cody McFadyen. O la battuta di un vecchio film di Martin Scorsese. Invece no:
apri Solo il tempo di morire (Marsilio, 19 euro) e non ci trovi Hollywood ma Milano, già capitale immorale, ovvio, prima di diventare la città da bere. La ligèra, la vecchia mala, solo un ricordo. Gli anni tra il 1972 e l’84 in scena: sangue che cola, batterie criminali in lizza per la supremazia sotto la Madonnina.
Faccia D’Angelo, il Catanese e il Bandito dagli occhi di ghiaccio, sono i tre eroi neri che abitano le pagine di quest’ultimo romanzo di Paolo Roversi – opera che fa i conti anche con la cronaca, con avvenimenti realmente accaduti; non è difficile scorgere, sotto i profili dei personaggi disegnati, figure e scene di memoria condivisa, in una città che, dopo il boom economico, con le lotte tra Turatello e Vallanzasca e poi Epaminonda, perdeva la sua innocenza. Opposto a loro uno sbirro duro, cattivo ma non disincantato, a seguire il filo d’Arianna di una trama criminale indimenticabile –il plot racconta il business della droga, le rapine, il sangue, il gioco d’azzardo, la prostituzione, la dissoluzione morale
Primo finalista a rispondere alle nostre domande, a Paolo Roversi, classe ’75, di Suzzara ma trapiantato a Milano, chiediamo da subito se ha voluto scrivere dell’epopea della grande mala milanese.
Questo libro è epica, cronaca, mito e storia. O, anche più semplicemente, è narrativa ispirata a fatti reali. Dovessi dare delle percentuali: direi che l’80% di tutto quello che ho raccontato è davvero accaduto in quella Milano terrificante: più di 150 morti violente ogni anno. La materia narrativa con cui ho dovuto confrontarmi si è dimostrata complessa. Tra la città dell’austerity e quella da bere c’è un abisso di violenza, una lotta senza quartiere tra grandi organizzazioni del malaffare, batterie spietate, criminali dotati di una pazzesca inventiva, di un vero e proprio genio del male. Ci ho messo sei anni di lavoro, di letture, di biografie, di giornali letti e riletti, di poliziotteschi guardati la notte, per arrivare a scrivere questo libro.
Un mondo moriva e un altro nasceva
Sì, i milanesi hanno un’idea molto romantica perfino della loro criminalità. Io la ligera, il mondo della vecchia mala, ho provato a raccontarla nel prequel di quest’opera, Milano Criminale. Ma è bene rimarcarlo: c’è una sorta di abisso antropologico tra il primo degli eroi possibili, il vecchio Luciano Lutring, e i protagonisti di Solo il tempo di morire, tra il criminale guascone del secondo dopoguerra, che rubava per fame e che assaltava le banche portando via le cambiali che i poveri non avrebbero più dovuto pagare, e i protagonisti foschi, cupi, davvero maledetti che abitano queste ultime mie pagine. Contraddistinti pure loro, tuttavia, anche da un imperituro fascino maledetto: ricordo che in carcere, ai primi tempi, René Vallanzasca riceveva 800 lettere di donne ogni giorno…
Nel romanzo c’è una data di svolta. Quella in cui Milano ha perso definitivamente la sua innocenza: 12 dicembre 1969.
La bomba a piazza Fontana, oltre a inaugurare la più tragica spirale per il Paese, la strategia della tensione, ha anche svolto un ruolo di accelerazione per tutta la criminalità. E’ come se la malavita fosse peggiorata tutta d’un colpo. Nessuno era più al sicuro. Non solo per il terrorismo, non solo per la violenza politica. Il salto di qualità si compiva. Potevi passare per la galleria Meravigli, dietro piazza Duomo, o dalle parti di piazza Diaz e insegne recitavano “Circolo degli Scacchi”, “Amici della Pittura”. Dentro, però, sciava la coca, le bische assomigliavano a quelle di Las Vegas, ogni croupier era elegantissimo e i professionisti si concedevano i lussi più estremi.
Poi le bische finirono quando arrivò la Tv commerciale.
E’ andata così. A un certo punto i milanesi si sono fatti conquistare dal piccolo schermo. Si sono imborghesiti. Per fortuna, forse.
Definiresti il tuo libro un’opera anche politica?
No. Non ho voluto schierarmi. Non c’è una presa di posizione. Non è ancora possibile, io credo, definire una serena posizione politica sugli anni ’70. Sono ancora troppo incandescenti. Ho cercato di raccontare i fatti con un piglio da storico. Riporto i fatti come parlavano all’epoca. O almeno ci ho provato!
Venendo al nostro Bancarella: cosa ti aspetti? Quali sono le tue sensazioni?
Io sono nato a Suzzara, vicino Mantova, e lì la mia famiglia ha avuto una libreria. Capisco molto bene quali sono gli sforzi del libraio oggi. Io ho smesso nel 2004 ma ricordo bene quanta passione e fatica c’era dietro ogni scatolone di libri che arrivava… Voglio dire questo, però: oggi come allora il rapporto di fiducia tra cliente e libraio è insostituibile. Il consiglio del libraio fa sempre la differenza. Interpreta il gusto. I librai sono un valore aggiunto Ovviamente, dunque, mi fa molto piacere partecipare a un premio assegnato interamente dai librai. Gente che legge. Gente che premia il merito e che spero trovi il tempo, tra una fatica e l’altra, di avere un po’ di attenzione anche per me.